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Mel Bochner, nuovi lavori
A cura di Sara Rossino
Viviamo in un mondo fatto di parole. Parole scritte, gridate, sussurrate, manipolate, inventate, ricercate, parole chiare, ambigue, seducenti ed inquietanti.
Viviamo in un’era che potremmo definire Trans-moderna, poiché nel mondo continuo della comunicazione, tutto avviene trasversalmente, in modo obliquo e continuo, senza più distinzione di ambiti, generi, categorie. Come ha acutamente osservato il filosofo Edgar Morin, questa è l’era della complessità, in cui ogni singolo elemento del vivere è strettamente collegato agli altri elementi del sistema complesso di cui fa parte.
E a pensarci bene il collegamento, la zona sfumata che annulla i confini e cancella i bordi tra le cose, tra i fatti, rendendo mobile e liquida ogni esperienza possibile, è proprio il linguaggio, strumento fluido e duttile, manipolabile, elastico.
Il linguaggio trans-moderno è un linguaggio meticcio, creolo, fatto di neologismi, di termini inventati, storpiati, scorretti, termini presi in prestito ed adattati alle esigenze di ciascun contesto linguistico. Il livello della comunicazione contemporanea potrebbe essere definito “medio-mediatico”, facilmente ed universalmente comprensibile, semplice, di immediata accessibilità, non troppo specifico né approfondito, strutturato in modo da incuriosire e assopire allo stesso tempo, da indurre ad un ascolto superficiale, creare un sottofondo parlato continuo che non necessiti di attenzione specifica ma allo stesso tempo comunichi messaggi chiari e di effetto immediato.
Ormai lontane dal denominare oggetti o cose reali, le parole dell’uomo contemporaneo spesso non hanno più nemmeno un referente nel mondo dei fenomeni, prendono il posto dei fatti, li anticipano, si sostituiscono ad essi. Si parla di tutto, in ogni momento, sommergendo il reale di una quantità di parole tale che, alla fine, ciò che resta è soltanto il suono confuso e caotico delle cose che si dicono, mentre le cose di cui si dice sono nel frattempo scomparse, dimenticate, perdute. La verità detta e raccontata prende il posto di quella vissuta. Il linguaggio contemporaneo produce una realtà virtuale.
Di tutto questo sembra essere ben consapevole ed acuto osservatore Mel Bochner, di cui Metroquadro presenta i più recenti lavori su carta. Partendo dal Thesaurus, il dizionario dei sinonimi inglese, Mel Bochner sceglie parole ed espressioni di uso comune partendo dal termine standard, quello che appunto compare come prima voce del Thesaurus. Poi le declina nelle varianti sempre meno formali e più colloquiali, fino ad arrivare alle espressioni volgari, creando una catena linguistica che lentamente slitta il significato del termine iniziale in tante alternative possibili che si distinguono per l’effetto che hanno in chi le legge o le pronuncia. Ciò che risulta da questo processo è una cascata lessicale, in cui le virgole tra una parola e l’altra sono brevi pause che permettono di riprendere fiato, perché altrimenti la coscienza si ritroverebbe smarrita nel flusso sterminato del senso.
In uno di questi lavori del 2003 compare come ultima voce l’espressione “Blah-blah-blah”. Il termine originario, che compare per primo nell’opera, è meaningless, senza significato. Sembra essere proprio la riflessione sull’assenza di significato del flusso di parole che caratterizza l’era trans-moderna ad interessare Bochner nei lavori successivi. Blah-blah-blah diventa soggetto centrale degli oli su tela e velluto e delle carte dal 2007. Ciò che appare di fronte al nostro sguardo è l’immagine della comunicazione contemporanea, smarrita, grottesca, quasi ironica nel suo essere al tempo stesso ridondante e vuota. Talmente assurda da suscitare forse nell’artista un passaggio successivo, una sonora risata che si concretizza nell’opera più recente, del 2011, intitolata appunto “Ha,ha,ha”, presente in mostra.
Le parole assumono nelle opere di Bochner una concretezza tangibile ed una vitalità cromatica che ne trasformano il valore. Se è il senso a mancare, se è la possibilità di ricondurre il linguaggio al mondo reale a venir meno, nelle opere di Bochner il linguaggio trova una nuova materialità. Proprio lui, considerato suo malgrado uno dei padri dell’arte concettuale, ritorna con questi lavori alla tecnica artistica per eccellenza, la pittura, realizzando opere che in effetti sono prive di “concetto” o messaggio, poiché manca, nelle parole scritte, un significato. Private del loro valore semanticamente distintivo, le forme delle lettere assumono un valore nuovo, che è puramente visivo, cromatico, sensuale e catturano l’osservatore per le loro qualità estetiche e formali, tangibili, sensibili. Se non è più possibile comprendere il senso delle parole che ascoltiamo, leggiamo, vediamo quotidianamente, sembra voler dire Bochner, almeno si può tentare di ritornare ad una forma primaria di conoscenza del mondo, la prima e forse l’unica che l’essere umano ha a disposizione, ovvero l’esperienza. E l’esperienza parte proprio dai sensi, dalla percezione, dall’osservazione. Di fronte alle lettere materiche, in cui il colore ad olio è visibilmente concreto, di fronte alla carta spessa, fabbricata a mano e pressata con lastre d’acciaio, di fronte all’evidenza quasi didascalica della tecnica esecutiva, di fronte all’artigianalità delle opere su carta di Bochner non possiamo che prendere atto dell’evidenza, ovvero che ciò che abbiamo a disposizione sono soltanto oggetti sensibili, forme, colori, materiali, dietro ai quali scopriamo nascondersi la vacuità enorme del linguaggio di oggi. Forse con un po’ di horror vacui, accettiamo che l’unica cosa che ci resta da fare è osservare e attendere.
Possibilmente in silenzio.
“As for the choice of yiddish (..) it is the language that my parents and grandparents spoke when i was growing up. It is the original “ghetto” (named, as you know, after the area jews were permitted to live in medieval venice) language, an ironic and skeptical, and often scatological view of human nature, unrefined and indifferent to polite taste.”
Mel Bochner